Olsjan Taku, trapiantato di rene a 18 anni

Il nostro Paese può essere una benedizione. Italia per qualcuno, a volte, significa salvezza.

Olsjan Taku è un ragazzino di Tirana, è malato dall’età di undici anni e in Albania non può curarsi perchè mancano strutture adeguate: se non riuscirà ad andarsene da lì morirà. I suoi genitori sanno che in Italia i bambini con la malattia di Olsjan possono guarire ma,  nonostante la vicinanza geografica e gli accordi  internazionali,  arrivare qui è molto più  difficile di quanto si possa immaginare.

La prima volta è nel 1999: con la guerra in Kosovo viene siglato un accordo internazionale per cui i bambini di alcuni Stati dei Balcani, Albania inclusa, possono venire in Italia con la cooperazione internazionale.  Olsjan è ricoverato in ospedale a Tirana, ha tredici anni e da due soffre di calcoli che hanno danneggiato gravemente i suoi reni. Un mattino di maggio il medico entra nella sua stanza con l’espressione di chi sta per dare una bella notizia:  ”Ti mando in Italia a curarti”.

Per i genitori si accende la speranza: “Ogni due mesi al massimo Olsjan veniva ricoverato, mio marito lavorava anche di notte per mantenerci, dottori e medicine erano molto costosi. Dopo due anni di cure, flebo e antibiotici i medici ci hanno detto che solo la dialisi o un trapianto avrebbero potuto guarire l’insufficienza renale di cui soffriva ma in Albania queste terapie non erano possibili: non esistevano ancora i centri trapianti e anche per la dialisi non erano attezzati.  Poter venire in  Italia fu una gioia immensa,  sapevamo che lì i medici erano bravissimi e all’avanguardia”.

Olsjan viene ricoverato all’ospedale pediatrico Meyer di Firenze, dove iniziano a curargli i calcoli renali con una terapia a base di ultrasuoni. Dopo nove mesi di trattamento i medici lo dimettono, stabilendo che dovrà tornare in Italia sei mesi dopo per proseguire la terapia. A niente servono le richieste del padre di protrarre la cura: “Sognavo di poter tornare a casa da quel viaggio con mio figlio guarito, invece dopo nove mesi era stato fatto solo il 30 per cento del lavoro. Olsjan aveva bisogno di cure più lunghe ma i progetti di cooperazione non disponevano di fondi sufficienti per finanziare tutta la terapia”.

Tornati in Albania le condizioni di Olsjan peggiorarono, ha quattordici anni e pesa 25 chili: “Fino a pochi mesi prima era un bambino scalmanato, il più alto della sua classe. Quando la malattia ha iniziato a manifestarsi la sua crescita si è gradualmente fermata, ha iniziato a perdere peso e forze fino a non essere più in grado di alzarsi da solo dalla sedia. Ogni volta che lo guardavo stare male pensavo che dovevo assolutamente riportarlo a Firenze, così ci riprovammo”, ricorda Haike, la madre.

All’ospedale di tirana c’è una lista di attesa di pazienti che hanno la necessità di cure in Italia: normalmente i primi venti ottengono la possibilità di andare. Olsjan è secondo in graduatoria ma in pochi mesi, sebbene le sue condizioni di salute peggiorino, scende fino a occupare il trentottesimo posto: “Non era sufficiente essere molto malati, bisognava essere anche molto ricchi per restare in alto nella lista e noi ormai avevamo finito tutti i nostri risparmi”. I genitori provano a chiedere l’aiuto della cooperazione internazionale e dopo un anno di attesa ottengono la possibilità di tornare a Firenze.

A settembre del 2000 sono di nuovo all’ospedale Meyer e questo ricovero si rivela più deludente e amaro del precedente: il bambino ha bisogno della dialisi ma ASL e cooperazione internazionale non dispongono di fondi sufficienti per coprire i costi di una terapia così lunga e onerosa. La madre si ritrova in mano una lettera di dimissioni volontarie del figlio dall’ospedale firmata Hake Taku, ma lei quella firma giura di non averla mai fatta. Devono tornare indietro.

A casa si rivolgono dappertutto, parlano con chiunque: parroci, associazioni, autorità, mediatori culturali, finchè un giorno viene consigliato loro di rivolgersi a una chiesa di Tirana dove c’è una suora in contatto con un certo dottor Fabrizio Arzilli, un medico toscano che periodicamente va in Albania a visitare i bambini malati e nei casi più gravi li porta in Italia per curarli: “Il dottore tornerà in primavera”, disse Suor Sofia.

“Era un mattino di marzo del 2003, eravamo in venti là fuori e lo aspettammo come un Presidente”, ricorda la madre, “abbiamo atteso per cinque ore, al momento del nostro turno ero così agitata che temevo che il cuore scoppiasse. Sapevo che da quella visita dipendeva il futuro di mio figlio. Non posso descrivere la nostra gioia quando, appena lo visitò, ci disse: preparate i documenti, questo ragazzo deve venire subito in Italia”.

Mentre il padre rimane in Albania con la figlia minore, Olsjan vola in Italia accompagnato dalla mamma: qui viene ricoverato all’Ospedale Santa Chiara di Pisa nel reparto di nefrologia, dove incontra il professor Paolo Rindi, che lo avrebbe seguito lungo tutto il suo percorso di cura: “Fu la mia fortuna incontrarlo”, dice Olsjan, ” grazie a lui da allora non sono più andato in Albania. In ospedale mi difese con tutti quelli che volevano che io e mamma tornassimo indietro e l’ho sentito più di una volta arrabbiarsi e dire: Questo ragazzo non si muove di qui!

Dopo alcune settimane di ricovero i medici riscontrano che entrambi i reni del regazzo sono compromessi e il trapianto da donatore vivente rappresenta l’unica possibilità di quarigione.

La madre viene sottoposta agli esami per valutare se è compatibile: “Sapere che il mio rene poteva restituire la salute a mio figlio fu straordinario ma paradossalmente proprio allora iniziò il periodo più difficile di tutti. Dimisero Olsjan dall’ospedale e, nell’attesa che ci richiamassero per iniziare la dialisi, io, mio figlio e mio marito, che nel frattempo ci aveva raggiunto, eravamo in mezzo a una strada. Andammo per un pò a Soverato, in Calabria, dove avevamo alcuni parenti. Lì abbiamo conosiuto Maria, dirigeva un grande albergo, ci offrì ospitalità e un lavoro: io pulivo le stanze e mio marito faceva lavoretti di manutenzione. Quando Olsjan aveva qualche crisi, Maria chiedeva ai suoi figli di portarci in ospedale e fu sempre lei a chiamare uno specialista della città quando in estate mio figlio si aggrvò: il medico disse che doveva iniziare subito la dialisi.

All’ospedale Santa Chiara di Pisa fortunatamente c’è posto e qualche giorno dopo Olsjan è già in dialisi: “Abbiamo iniziato ai primi di settembre, tre volte a settimana andavamo in reparto per la terapia e intanto avevamo una stanza nella foresteria dell’ospedale, ma mio marito non poteva stare con noi: solo il paziente e una familiare, diceva la regola.

Mi sentivo terribilmente impotente, non conoscevamo nessuno, mi avevano appena diagnosticato un nodulo al seno e mio marito non aveva alcun posto dove andare. Durante il giorno stavamo tutti insieme ma la sera doveva andarsene. Per qualche notte trovò ospitalità dalle suore, ma poi dormì ovunque, non c’era un tetto per lui…” dice commossa ricordando l’umiliazione di un periodo che vorrebbe cancellare dalla memoria.

Di quel momento difficile sono rimasti solo i ricordi. In alcuni mesi, grazie all’aiuto di una mediatrice culturale di Pisa, il padre trova un lavoro e una casa, la madre viene operata al seno mentre a Olsjan viene eseguito l’espianto dei reni malati. L’estate seguente lui e Haike sono di nuovo in sala operatoria, ma questa volta insieme, per il trapianto: dopo ventuno mesi di dialisi e otto di ospedale, un’operazione chirurgica e il rene di sua madre gli avrebbero restituito una vita normale.

Il 13 luglio 2005, trenta giorni esatti dopo il trapianto, Olsjan compie dicianove anni: è il primo compleanno passato in buona salute da quando era in quinta elementare.

Oggi vivono tutti e quattro in una casa appena fuori Pisa. La sorellina Xheni, dopo essere stata tre anni con i nonni, ha potuto raggiungere i genitori e il fratello con il ricongiungimento familiare.

Il padre di Olsjan ha un contratto a tempo indeterminato come operaio in una grande ditta: “Lavora moltissimo, fa più di quanto dovrebbe, ma a lui piace darsi da fare”, dice Haike; lei lavora nella Pubblica Assistenza di Pisa, si sveglia molto presto la mattina per andare a pulire gli uffici: “Ho trovato persone gentilissime, la Pubblica Assistenza per me è una seconda casa. Da quando sto con loro non ho più sentito la mancanza dell’Albania e sono un pò rinata anch’io”.

Xheni frequenta il liceo scientifico Buonarotti di Pisa, ha imparato l’italiano e tempo di record, è molto brava a scuola, tanto da vincere premi e borse di studio: “Mia sorella non è come me, a lei piace studiare, la sua scuola è tra le più difficili di tutta la città, io non ci andrei mai”, dice Olsjan con un orgoglio da fratello maggiore.

Lui dal giorno dell’intervento è tornato un pò alla volta alla vita che per otto anni l’aveva messo fuori gioco. Ha appena fatto l’esame di guida, presto inizierà a lavorare come apprendista idraulico e parla velocissimo: “Io sono come mio padre, mi piace lavorare, non sto mai fermo altrimenti mi annoio”, dice con accento pisano, e quando glielo si fa notare risponde: “Ma io sono pisano, senza Pisa non ci sarei nemmeno io, qui mi hanno salvato la vita. So quanto è bella questa città, quando consegnavo le pizze in motorino me la sono girata tutta. Non voglio mai più andarmene da qui”.

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